Ci stringiamo tutti intorno a Siniša, alla sua famiglia bellissima, alla moglie, Arianna, a Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, a Marko, alla mamma, al fratello, ai tantissimi che in tanti modi sono legati a Siniša. Ci stringiamo tra noi. Vorrei che sentiate tutti l’affetto di questa madre che è la Chiesa – nell’amore una come Gesù vuole e saluto il Vescovo Andry della Chiesa serba ortodossa e nell’amore Siniša è nostro e vostro – che non accetta il dolore, l’ingiustizia della morte, perché è una madre e non si abituerà mai alla sofferenza. Oggi per il calendario serbo è San Nicola che è il santo proprio della famiglia Mihajlović. Questo saluto doloroso ci lascia quasi increduli e ci fa provare l’ingiustizia e la forza del male che spegne la vita di un uomo nella pienezza della sua vita e con tanti programmi per il futuro (si immaginava diventare vecchio con tanti nipoti perché Siniša ha sempre volute una famiglia piena di vita). Nei nostri pensieri e ferite ci aiuta proprio il Natale. Oggi lo capiamo di più nel suo mistero di luce che illumina le tenebre. Colui che ascese era disceso quaggiù sulla terra. Ecco, Gesù viene non per consolarci un poco, dispensando buoni sentimenti che quando sono banali e si ha il cuore ferito irritano. Natale non è una festa di buoni sentimenti a poco prezzo, quando la vita lo fa pagare. Gesù nasce nel mondo, discende dal cielo perché la vita degli uomini sia portata in cielo. E lo fa a caro prezzo, perdendo l’onnipotenza, la grandezza, la pienezza. Natale è Dio che si umilia diventando uomo. Se ci fermiamo a pensare restiamo solo stupiti per un mistero di amore così grande. Una cosa così si fa solo per amore: amore vero, non surrogato! Non è “una storia” tra tante, ma amore vero, pieno, che prende tutto, che toglie il respiro, che non risparmia niente, vita. Dio non si accontenta di dichiarazioni ma sceglie, per vincere la paura perché l’amore rende fortissimi. Dio nasce nel mondo, ne accetta gli imprevisti per farci nascere al cielo. Quando un bambino viene alla luce si apre a lui un mondo finora sconosciuto, che sentiva da dentro il grembo della mamma ma non poteva vedere. Deve nascere per capire. E c’è bisogno di tagliare il cordone per vivere in quell’altra dimensione. Ecco, Dio vuole che la morte, ingiusta, faticosa, dolorosa non sia la fine ma la nascita e dal grembo di questo mondo ci aiuta a nascere alla vita che non finisce. E il legame, il cordone che sembra spezzato in realtà diventa invisibile, spirituale, solo
amore, ma lo sappiamo che sono proprio le cose invisibili quelle essenziali. Gesù è questo legame ed è solo un legame di amore che dà senso a tutto e a tutti, che non si perde, non finisce. Gesù diventa piccolo, per insegnarci le cose grandi, quelle che servono per davvero e ci fanno capire cosa saremo.
I discepoli discutono tra loro su chi fosse il più grande. E così iniziano a litigare, a dividersi, a fare classifiche, confronti, recriminazioni, punteggi. Essi pensano grande chi comanda, chi si impone, chi usa gli altri se gli conviene, chi possiede e poi magari si deprimono quando non lo diventano. Grande per loro è chi sta bene e scappa dai problemi degli altri, cerca il suo benessere, la prestanza fisica, il successo, il potere tanto che diventano un impedimento, un inganno perché ci fanno sentire grandi quando non lo siamo. La malattia, come tante circostanze in cui diveniamo improvvisamente piccoli, ci apre un’altra strada e ci fa pellegrini alla scoperta di sé. La piccolezza è via per conoscere sé stessi, gli altri e Dio. Siniša fece questa esperienza già negli anni terribili della guerra nei Balcani, quella che, come diceva lui, aveva un unico colore, il rosso del sangue delle vittime perché la guerra rende tutti cattivi ed è ingiusta per tutti. Gesù prende un bambino e dice che lui è il più grande. Grande è chi si fa piccolo. Gesù stesso diventa Lui bambino perché chi è grande per davvero è chi ama gli altri, li aiuta, non perché contano ma perché è lui. Grande è chi si ferma ad aiutare, chi è generoso, chi non pensa di essere “lei non sa chi sono io!” o passa il tempo a dire “guardami quando sono bravo”. Grande è chi ama e aiuta la sua squadra e si pensa con gli altri, valorizza il talento degli altri, crede in qualcuno quando non è nessuno (cioè unisce la sua vita, rischia anche lui di perdere).
Grande è chi accoglie l’altro, come fanno i piccoli, come amico e fratello oppure, chi fa giocare bene tutti, e ce la mette tutta per i suoi. Oggi siete tanti di tante squadre (dalla Roma alla Sampdoria, dalla Lazio all’Inter, dal Catania alla Fiorentina, dal Milan fino al Torino e ben due volte al Bologna, senza dimenticare gli inizi alla Stella Rossa di Belgrado, la guida della nazionale serba e lo Sporting Lisbona) ma oggi capiamo che poi alla fine il vero combattimento è con l’unica squadra che conta, che e quella dei Fratelli Tutti, dell’unica umanità, che deve combattere la difficile partita della vita perché contro il vero e grande nemico, insidioso, furbo, disonesto, ingiusto che e il male e i suoi tanti alleati. Ecco Siniša dava tutta la sua forza alla squadra. La famiglia di Siniša era la sua squadra del cuore, da cui ha avuto il gioco più bello, e dalla quale e stato amato e protetto fino alla fine da loro che non hanno mai mollato, proprio come era e ha fatto lui. Guai a scappare da chi sta male! Quando succede umilia chi è malato e fa sentire la malattia una colpa! Fino alla fine, con la presenza instancabile di Arianna e di tutti. Poche ore prima di andare in ospedale giocava con Violante, la nipotina, che è stata luce e senso della vita che va oltre di sé e per questo gioia infinita e diceva: “Mi sento felice”. E per la sua squadra dava tutto, non si tirava indietro, pagava di persona. Siniša è stato un uomo di sport, da sempre, sin da quando correva senza stancarsi o da bambino, calciando contro la serranda del vicino di casa, si allenava a battere le punizioni. Ha imparato bene! È rimasto lo stesso uomo ruvido, schietto, audace, diretto, generoso e allo stesso tempo dolce, tenero. Le sue
parole erano i fatti e gli occhi. I difetti e i pregi si abbracciano sempre, per lui senza nessuna ipocrisia, anzi con fastidio verso le falsità, scegliendo l’autenticità che spesso lo ha portato ad essere al limite, come quando entrava duro su un avversario di gioco. A Medjugorje ci andò da solo nel 2008, quando allenava per la prima volta il Bologna e disse: “Ho cominciato a piangere come un bambino, non riuscivo a trattenermi. E mi sono sentito più forte e più uomo quel giorno che in tutto il resto della mia vita”. Ecco chi è davvero grande. “Su quella panchina è come se mi fossi ripulito, come se avessi tolto una pietra dal cuore. Da lì ho iniziato a pregare. Sono andato un po’ in conflitto, a volte Dio mi aiutava, a volte no. Poi ho capito che bisogna pregare sempre, da prima della malattia prego due volte al giorno. Ma non bisogna dire ‘voglio, voglio…’, ma ‘grazie, grazie’”. “Mi sono sentito totalmente appagato, pulito, libero, come se mi fossi tolto di dosso tutti i pesi dell’esistenza. Puro, come un bambino appena nato”. “Con Dio le fragilità non sono ostacoli, ma opportunità”.
Non scappava Siniša, come non è scappato davanti alla malattia. L’ha affrontata con coraggio, ma questa volta diverso: parlandone, piangendo davanti a tutti, condividendo la commozione, la speranza, le difficoltà quel passaggio da invulnerabile a fragile che è sempre una scoperta amara e difficile per tutti. E qui ha dimostrato di essere un uomo vero. “Il guerriero”, l’orso, ha vinto con la dolcezza della fragilità, insegnando che la vera forza non sta nel sentirsi invincibili, ma nel provare sempre a rialzarsi e nel rialzare chi è caduto. La fragilità infatti, è una porta, non un muro davanti a cui sbattere. Ecco, proprio così ci insegna Dio che diventa fragile perché quando scopriamo di esserlo lo sentiamo vicino a noi. Ricordo l’incontro con Siniša nei primi giorni del suo
combattimento nel reparto dell’ematologia del S. Orsola di Bologna; e permettetemi di ringraziare questa squadra che anche lo ha accompagnato con competenza e passione, protetto e difeso con fermezza e dolcezza. E in diverse occasioni aveva ammesso che la malattia gli aveva fatto comprendere meglio la vita. “La malattia non è una colpa, succede, e basta. Ti cade il mondo addosso. Cerchi di reagire. Ognuno lo fa a suo modo. La verità è che non sono un eroe, e neppure Superman. Sono uno che quando parlava così, si faceva coraggio. Perché aveva paura, e piangeva, si chiedeva perché, e implorava aiuto a Dio, come tutti. Pensavo solo a darmi forza nell’unico modo che conosco. Combatti, non mollare mai”. Piccolo era diventato grande tanto che “Mi godo ogni momento. Prima non lo facevo, davo tutto per scontato. La malattia mi ha reso un uomo migliore”. “Sono un uomo controverso e divisivo, si dice così? E ci ho messo anche io del mio. Facevo il macho, dicevo cose che potevo tenere per me. Mi prendo le mie responsabilità. Altrimenti sarei un ipocrita”. “Volevo dire a tutte le persone nel mio stato, ai malati che ho conosciuto in ospedale di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti”.
Come sosteneva un poeta bolognese morto prematuramente: con la morte si apre il secondo tempo della partita della vita.
Lo diciamo anche noi con i suoi figli: “Spero tu stia bene ora amore mio, ovunque tu sia io so amare fino a lì”. E Dio fa esattamente questo con noi: ci viene a cercare dovunque noi siamo perché incontriamo l’amore e diventiamo forti di questo.
Grazie Dio che nasci nel mondo per farci nascere in cielo. Oggi Siniša vive con te e con te, amore pieno, è in mezzo a noi, dentro di noi, perché tu nasco per farci vivere per sempre nella tua casa del cielo. Amen.