Giulio Napolitano, illustre giurista e docente di diritto amministrativo e di Analisi economica del diritto all’Università degli Studi Roma Tre, ha condiviso col padre per una vita l’avventura stimolante della complessità di avere “Il mondo sulle spalle”. Il suo ultimo lavoro, edito da Mondadori, è in tutte le librerie dello Stivale, e il suo senso più profondo è illuminato dal sottotitolo, “Una storia famigliare e politica”, dove l’ordine degli aggettivi non è affatto casuale e riflette l’impianto del libro, fondato sulla narrazione di aneddoti dalla quotidianità della famiglia dell’11° Presidente della Repubblica Italiana e su una tenera corrispondenza epistolare con il papà Giorgio, che il prossimo 29 giugno avrebbe compiuto 100 anni. Mancato nel settembre 2023, una vita con la moglie Clio Maria Bittoni, da cui ha avuto – oltre a Giulio – anche il primogenito Giovanni. I due figli hanno seguito l’affascinante percorso del padre con curiosità e partecipazione, prima da bambini e poi nel corso degli studi e delle rispettive professioni: dal piccolo appartamento romano di Rione Monti alle stanze di Montecitorio e poi del Quirinale. Ne vien fuori il ritratto di un uomo dallo straordinario rigore, lucido e sempre misurato, e spicca la complicità intellettuale tra il figlio e il padre, primo Capo dello Stato eletto per due mandati consecutivi, ed anche la reciproca cura, senza nascondere l’ineludibile fatica del “mestiere di figlio”.
Tra un viaggio e l’altro per presentare la recentissima opera, il Professor Napolitano ha gentilmente concesso alle colonne di Lazialità una piccola intervista. Una chiacchierata che è stata l’occasione per farci raccontare alcune delle più inedite sfumature sottese alla sua recentissima pubblicazione e abusare della sua pazienza nello scavare tra le pieghe più intime della sua orgogliosa lazialità. Lo ringrazio sin d’ora per la disponibilità, la pazienza e l’estrema gentilezza.

Buongiorno, Professore. Un curriculum maestoso. Dopo la maturità classica col massimo dei voti al Visconti e la Laurea con lode in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, ha messo in fila il Sant’Anna di Pisa, il Max Planck di Heidelberg, Parigi e New York. Tanta ricerca e una carriera importante sotto il profilo didattico e scientifico. Da piccolo avrebbe mai pensato ad un percorso simile?
«Buongiorno a voi. A dire la verità, mi è sempre piaciuto attraversare le frontiere, studiare i campi di confine, anche perché mi sono laureato in diritto civile, e durante il dottorato mi sono pian piano appassionato al diritto amministrativo. Ho sempre studiato e prediletto i campi di intersezione, in chiave però comparata, internazionale. Mi è sempre piaciuto spaziare in altri paesi, intraprendere svariate missioni estere. Non lo immaginavo da bambino. Figuratevi: pensavo di fare il giornalista sportivo…».
In queste settimane sta presentando in giro per l’Italia il suo libro. Vorrei soffermarmi sul paragrafo intitolato: “Dalla prima lezione alla cattedra Universitaria”. In una società liquida in cui sempre più spesso essere docente significa anche supplire alle carenze genitoriali ma anche intercettare e sfidare la complessità del contemporaneo, quale è per lei il significato più profondo dell’insegnamento? Quanto è più difficile oggi trasmettere questi valori? O quanto sente, invece, che per lei sia più semplice, avendo avuto in casa un esempio di rigore, precisione e integrità morale?
«La vocazione e il compito precipuo del Professore, secondo la mia personalissima interpretazione, sta nel riuscire a stimolare la curiosità e spingere ogni studente a dare un po’ di più del normale, a credere in se stesso, a crescere giorno dopo giorno. Oggi non è facile, i ragazzi hanno migliaia di distrazioni e rischi di inciampo ad ogni angolo. Ma sono anche più aperti al mondo, hanno più interesse a ciò che succede attorno a loro, a capire. Ho imparato da papà proprio questo: il senso di una missione, di un impegno, ma anche l’idea che ognuno debba fare la propria parte secondo le proprie possibilità, senza seguire per forza dei modelli ben precisi».
Cosa ha significato per Giulio Napolitano essere figlio di un uomo che così tanto si è legato al destino di un paese e ad una vocazione politica?
«Mio padre è sempre stato molto impegnato nella sua attività politico/istituzionale, ma aveva un rapporto fortissimo con mia madre e anche con i figli. Contava molto la qualità del suo esserci, la sua sensibilità, la voglia di spronarci, di consigliarci letture, di darci suggerimenti. Si impara ad apprezzare la qualità del tempo. L’ottica del libro è proprio di valorizzare la componente più intima, più umana, che sta dietro ad un uomo con una carica istituzionale così importante».
Il libro ospita una tenera corrispondenza epistolare tra padre e figlio, ed è toccante che la scrittura potesse essere per suo padre un mezzo per arginare la timidezza e comunicare in modo autentico. Non crede che si tratti di un bel messaggio anche per le nuove generazioni?
«Sì, il titolo del libro nasce dalle parole della prima lettera che papà mi ha scritto al compimento dei 18 anni. Si tratta di un’espressione che poi ritrovo in una sua nuova lettera, dopo la rielezione del 2013. Era passato tantissimo tempo, ma non era mai venuto meno il suo impegno verso il Paese. Queste lettere sono il tesoro di questo libro, una parte nascosta di mio padre e del nostro rapporto. Il modo per fissare momenti importanti con una intimità che a voce non si riusciva ad avere, per un sussulto di pudicizia verso i sentimenti. Qualcosa che era proprio della sua generazione, di un modo più formale di vivere le relazioni quando erano ragazzi. Se a voce non riesci a dirti tutto ciò che vorresti dire, invece la parola scritta rimane, consente di superare l’impasse e l’imbarazzo, e di affidare ai fogli di carta lunghi pensieri, che poi restano».
Rieletto dieci volte deputato, Presidente della Camera dei Deputati, da Presidente della Repubblica ha sciolto due volte le Camere, nominato cinque governi, cinque senatori a vita, cinque giudici della Corte Costituzionale. A suo padre è stata affidata la gestione di alcuni momenti sliding doors della nostra storia: dallo scontro tra Quirinale e Palazzo Chigi sul caso di Eluana Englaro alla crisi finanziaria e alla nomina del governo tecnico. Il New York Times parlò di “King George”; mentre Kissinger lo definiva “my favourite communist”. Si è parlato molto di Giorgio Napolitano come “Re della Repubblica”: suo padre avrebbe rafforzato la tendenza alla crescita del ruolo politico del Quirinale, tanto da rendere labile il confine tra la funzione di persuasione morale e funzione di direzione politica attiva. Una lettura che condivide?
«Mio padre ha vissuto tanti momenti politici difficili nella vita. Da Presidente della Repubblica ha sempre potuto beneficiare di questa sua grandissima esperienza che derivava dalla sua storia, e anche di quella che è sempre stata la sua grande lucidità, la sua pacatezza. Devo confessare di non averlo mai visto esitare. Spesso l’ho visto molto preoccupato, quando il Paese di stava avviando verso una gravissima crisi finanziaria e del debito sovrano. L’Italia era sull’orlo del baratro, i sacrifici degli italiani e i loro risparmi quasi travolti. Tutti chiedevano il suo intervento: ricordo nitidamente che Il Sole 24 Ore fece in prima pagina una campagna dal titolo: “Fate presto!”. In quella circostanza prese in mano il Paese verso una transizione, affinché l’Italia potesse contare su una più solida base parlamentare e riguadagnare la fiducia da parte dei mercati. Quanto al suo ruolo e all’allargamento dei poteri quirinalizi, è chiaro che nei momenti di crisi di partiti e più in generale della politica – come ce ne sono stati vari – il ruolo del Capo di Stato tende inevitabilmente a rafforzarsi, è un meccanismo di bilanciamento che la Costituzione del resto prevede. Mio padre è stato chiamato dagli eventi e dalla debolezza delle forze politiche, anche se poi è sempre il Parlamento a decidere e anche il governo Monti si fondò su una maggioranza larghissima in Parlamento, fino ad ottenere la fiducia più alta della storia. Quanto al rapporto con Berlusconi, erano due personalità diverse per carattere, ma mio padre ha sempre creduto che il governo avesse diritto di governare, e da Presidente della Repubblica ha sempre cercato di tutelare l’esercizio della funzione di governo».

Ben 64 anni di matrimonio con Sua madre. Si dice che dietro ad un grande uomo ci sia sempre una grande donna. Del libro mi ha colpito molto l’aneddoto relativo alla casa in Vicolo dei Serpenti, Rione Monti. Ce lo racconta?
«Nel 1980 papà era già deputato da lungo tempo. Avevamo lasciato Monteverde vecchia e vivevamo nel Rione Monti. L’appartamento era piccolissimo, gli spazi erano limitati, io ero in camera con mio fratello e i nostri genitori dormivano in sala da pranzo. Una casa a cui loro si affezionarono moltissimo, era molto raccolta e ci consentiva di stare molto vicini. C’era un divano letto, dopo cena bisognava inevitabilmente aprirlo. Il pratico della famiglia era chiaramente mia madre, ma papà faceva dell’apertura del divano letto un punto d’orgoglio, era una sorta di appuntamento fisso. È vero, il rapporto con mia madre è stato fortissimo, c’era un’unione fondata sulla condivisione di ideali e valori più forti delle diversità dei caratteri e dei loro modi di essere. Questa unione è stata grande, grandissima. Siamo cresciuti con un modello di famiglia bello, in una famiglia da cui ci siamo sentiti protetti e curati, un modello totalizzante, nel senso che l’unione di noi quattro era importantissima».
Tra le pagine risalta la natura seria di una politica da intendere come preparazione puntigliosa, un affare complesso a cui dedicare anima e corpo. Immagino quel bambino piccolo immerso in questi luoghi molto grandi, molto istituzionali, a subire il loro fascino. Ci racconta com’è stato passare dalla dimensione micro della casa di Monteverde ai grandi palazzi e alle sontuose stanze di Roma?
«I luoghi e i tempi vissuti da piccolo sono quelli di una famiglia normale in tutto e per tutto con le sue abitudini e i suoi riti: la domenica camminare e fare lunghe passeggiate nei parchi pubblici, le vacanze di agosto al mare spostandoci nella macchina guidata da papà o raggiungendo il mare su traghetti e aliscafi. Poi, naturalmente, le vicende pubbliche ci hanno portato a luoghi solenni. Quando mio padre era Presidente della Camera a Montecitorio, in quel periodo io ero uno studente universitario della facoltà di Legge, e il fatto che un palazzo così simbolico e maestoso fosse diventato il mio luogo di studio mi faceva inizialmente tanto effetto: io me ne stavo lì a studiare dai libri, mentre al piano di sotto si svolgeva l’attività politica. Ogni tanto provavo a sbirciare, affacciandomi sulla piazza».
Giorgio Napolitano ha dato sempre la sensazione di un uomo retto, d’altri tempi, spesso amareggiato dall’incomunicabilità tra gli attori della politica. Basti ricordare le parole del 2° discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica, un limpido ammonimento alle forze politiche: “Che il vostro applauso non induca all’auto-indulgenza!”, intimò per l’occasione. O anche il suo testamento spirituale, contenente il suo auspicio: “L’Italia resti un Paese unito e sereno”. Nonostante tutto, è sempre rimasto un ottimista…
«Sì, papà sosteneva sempre che per chi fa politica non c’è spazio per il pessimismo: chi fa politica deve essere realista e misurarsi con la situazione di fatto in cui si trova, provare in tutti i modi a cercare le soluzioni preferibili per migliorare la condizione del Paese, lo stato delle cose, la situazione dell’Europa. Ci sono gli ideali su cui basare la quotidianità, ma poi c’è il pragmatismo ineludibile. Non basta lasciare spazio alla mera declamazione. Al momento delle dimissioni di Berlusconi mio padre era preoccupato per la crisi del debito sovrano, c’era uno spread alle stelle. In quella fase storica, ogni volta in cui incontrava persone in giro per l’Italia, riceveva sempre lo stesso appello: “Faccia qualcosa, Presidente, prima che sia troppo tardi!”. L’Italia era sull’orlo del baratro».
La vita di suo padre vi ha dato la possibilità anche di incontrare personaggi illustri, e di spostarvi spesso: penso alle vacanze tra Germania Est, Mosca, il Lago Balaton in Ungheria, all’Isola d’Elba con Berlinguer. Dato il momento storico, non posso non domandare del rapporto con Papa Francesco, che attraversa un momento difficilissimo.
«Devo dire che mio padre ha avuto una grande sintonia con ogni Papa. Al termine di un concerto, Benedetto XVI per esempio gli anticipò l’intenzione di dimettersi. Papà rimase molto sorpreso, fu l’unica persona a cui il Sommo Pontefice fece questa confidenza specialissima. Mio padre considerò il gesto delle dimissioni un gesto di grande responsabilità. Papà non era credente né praticante, ma con Benedetto XVI c’è sempre stato un rispetto reciproco oltre ad un’affinità culturale elettiva, derivante da una sensibilità comune e una comune attenzione alla storia dell’Europa, una tangibile preoccupazione per i suoi sviluppi. Condividevano anche la passione per la musica classica. Poi, mentre papà stava lasciando il Quirinale dopo il primo mandato, venne eletto Papa Francesco. Hanno avuto un rapporto intenso. Data la grande anima sociale di Bergoglio, tra loro c’è stata una sincera comunione. Sicuramente l’omaggio di Francesco al feretro di papà fu un gesto a sorpresa graditissimo, per noi una emozione grandissima. Ricorderemo sempre il modo estremamente rispettoso con cui si raccolse in meditazione nella circostanza, sorprendendo le centinaia di persone in fila a Palazzo Madama. Un mese dopo, il 2 novembre, fece un altro gesto sensazionale, rendendogli personalmente omaggio al Cimitero acattolico di Roma, entrando dal “cancello Gramsci”. Fu la prima volta nella storia in cui un Pontefice varcasse la soglia di quel cimitero. Sono gesti che resteranno sempre, indelebili».

Come lei può immaginare, siamo costretti a passare dal “sacro” al “profano”. La domanda è semplice: cosa significa per un uomo che nella vita s’è relazionato a Obama, a Benedetto XVI, ad Angela Merkel, alla Regina Elisabetta, alle più alte cariche del mondo, premiare una squadra di calcio – e nello specifico la squadra tifata dal figlio? Come ha vissuto il momento in cui il 13 maggio 2009 Giorgio Napolitano ha consegnato il trofeo a Tommaso Rocchi e Cristian Ledesma?
«Eh (ride)! Diciamo così: mio padre mi ha portato nel suo mondo ed io sono stato felice di seguirlo, prima a Botteghe Oscure, storica sede del partito comunista, poi a Montecitorio. Poi, c’è il piccolo mondo in cui si è fatto trascinare, la mia inveterata passione per il calcio. La mia lazialità nasce all’asilo per un patto ferreo stretto col bidello, una scommessa con la Lazio di Chinaglia e lo Scudetto del 1974. Per me era una passione irresistibile, ma nel rapporto con mio padre era davvero l’unica vera nicchia, l’unico mondo autonomo dove sono io a insegnare qualcosa a lui: la storia del calcio, l’almanacco Panini. Pensate che mio padre era andato soltanto una volta allo stadio, da ragazzo, a vedere il Napoli. Nel 1976 la prima volta insieme allo Stadio Olimpico per gara “drammatica” vinta per 4-0 contro il Milan. Io avevo appena 6 anni, la domenica dopo ci saremmo salvati a Como grazie all’ultimo miracolo di Tommaso Maestrelli, il mio condottiero. Tra i miei idoli non posso non menzionare Bruno Giordano e Lionello Manfredonia. Vi racconto un piccolo aneddoto. Dopo un mio brutto incidente stradale, Giordano e Manfredonia organizzarono una visita a sorpresa alla mia convalescenza: vennero a trovarmi facendomi un regalo incredibile. Così, quando poi Bruno fu operato ad Ascoli, io e papà andammo a trovarlo in clinica. In questo lungo percorso per strade imprevedibili, papà è stato anche coinvolto nella cerimonia di premiazione di quella coppa Italia vinta dalla Lazio di Delio Rossi. Fu incredibile».
Il calcio ha anche questo ruolo di distrazione, quasi consolatorio, una funzione come catartica e perfino questa possibilità di regalare a tutti una possibile appartenenza. Com’è cresciuta la passione per la Lazio? Ha per caso scoperto nel corso degli anni la lazialità anche in altri esponenti politici insospettabili?
«A me questo fiso ha sempre molto attratto e coinvolto, l’ho vissuto con entusiasmo e con fatica nel corso dei momenti di difficoltà, che nella storia della Lazio non sono stati certamente pochi. Mi è sempre piaciuto questo ironico distacco e atavico scetticismo di fondo del tifoso laziale, diversamente dal fideismo magico dei tifosi romanisti. Ho trovato, negli anni, alcuni insospettabili compagni di viaggio, anche all’interno del mondo della politica. In tribuna andavamo a vedere le partire con esponenti appassionati sia di destra che di sinistra. Penso ad Alfredo Covelli, fondatore del Partito Nazionale Monarchico, a Michele Marchio. Per esempio, come noto Gianfranco Fini è un tifoso del Bologna, ma spesso veniva a seguire la Lazio all’Olimpico per la moglie Daniela, tifosissima biancoceleste. Penso ancora ad un grande protagonista della storia della DC come Publio Fiori, all’ex sindaco di Roma Rutelli, ma anche ad Ottaviano Del Turco, venuto a mancare la scorsa estate. Eravamo un bel gruppetto, nonché l’emblema che per quanto si possano avere idee politiche anche profondamente antitetiche tra loro, il calcio ha il potere di unire, anche i più insospettabili».
Andiamo sul campo. Ci sono una vittoria e una sconfitta della Lazio a cui ha preso parte all’Olimpico che ricorda più nitidamente?
«Beh, a livello di vittorie io ricordo molto bene il trionfo in Coppa Italia col Milan dell’aprile 1998. Alzammo quel trofeo dopo 40 anni, vincemmo in rimonta con Gottardi, Jugovic e Nesta. Io ero lì e fu il mio primo trofeo da tifoso pienamente consapevole, perché la Coppa Italia del 1958 l’avevo vista soltanto sui libri e nel 1974 avevo soltanto cinque anni e non avrei potuto godermi il primo scudetto. La premiazione fu molto emozionante. Un’altra vittoria indimenticabile è chiaramente il giorno dello scudetto di Cragnotti con la Reggina, assolutamente memorabile. Sul versante dello sconfitte, i ko nei derby sono sempre stati i più dolorosi, particolarmente pesanti da digerire. Penso in particolare al 4-1 del novembre 1999, nell’anno del nostro secondo tricolore».

Facciamo un gioco: non le chiederò il suo 11 biancoceleste dell’intera storia…
«No, sarebbe davvero troppo complicato, e ci sarebbero svariati ex aequo…».
…tuttavia, mi limiterò all’asse della sua Lazio ideale: chi schiera in porta, al centro della difesa, in mezzo al campo e in attacco?
«L’asse della mia squadra ideale è composto come segue. In porta, alla pari, Angelo Peruzzi e Luca Marchegiani. In difesa Pino Wilson, ma anche Alessandro Nesta. In terza battuta, Lionello Manfredonia. A metà campo metto l’indimenticato Vincenzo D’Amico, ma anche Luis Alberto, per cui stravedevo. In avanti Bruno Giordano, al secondo posto Ciro Immobile. In panchina, assieme al mio mito Tommaso Maestrelli, è doveroso mettere anche Sven-Göran Eriksson».
L’ultima. Suo padre è stato emblema di personalità, caparbietà, leadership. Se dovessimo azzardare un paragone (altisonante e volutamente fuori luogo), c’è stato un calciatore o una figura dell’ultimo trentennio che in campo avrebbe potuto essere appellato “presidente”? Un direttore d’orchestra della squadra, una colonna portante a cui avrebbe affidato le chiavi dell’11 biancoceleste sul rettangolo di gioco?
«Direi Roberto Mancini, per il suo carisma, ma anche Juan Sebastián Verón, per il suo spirito di sacrificio in campo. Tra i calciatori della rosa attuale, direi Alessio Romagnoli. Dall’esterno mi sembra veramente un ragazzo con la testa sulle spalle, un profilo che mi piace molto».
Infine, quale è l’aneddoto più bello che accomuna o avvicina la vita della famiglia Napolitano al calcio?
«Senza dubbio, c’è stata la fortunata coincidenza legata alla nazionale italiana che vinse la Coppa del Mondo a Berlino nel 2006. Nel libro racconto questa nostra curiosa missione in Germania. Papà era stato eletto da pochissimo, da un mese e mezzo. Avrebbe dovuto presenziare alla finale di Berlino tra Italia e Francia. Prima della partita, ricordo la sua preoccupazione legata al fatto che se avesse esordito da Presidente della Repubblica con una cocente sconfitta dell’Italia si sarebbe fatto la fama di porta-sfortuna (ride, ndr). Alla fine, però, era entusiasta: sollevammo la Coppa del Mondo e tutto andò alla grande e oltre ogni più rosea aspettativa».
Grazie, Professore.
«Grazie a voi».
Niccolò Faccini
