È ormai prassi consolidata, da parte di molte società calcistiche, quella di “ritirare” un numero di maglia per ricordare in modo indelebile un proprio campione ritiratosi dall’attività agonistica o scomparso prematuramente, specie se in maniera tragica.
Così, salvo ripensamenti al momento non programmabili, i tifosi del Napoli non vedranno più il 10 di Maradona, quelli del Milan il 6 di Baresi e il 3 di Maldini, gli appassionati atalantini il 14 di Pisani, i genoani il 6 di Signorini…
Ma siamo sicuri che “cancellare” la presenza dal campo delle maglie appartenute a certi calciatori sia la maniera più giusta e significativa per onorarne la memoria o riconoscerne la grandezza?
Io la penso cosi:
“…era un pomeriggio come tanti altri ma quel giorno di gennaio il buio era calato più presto del solito, costringendomi a restare in casa anche dopo aver portato a termine le mie incombenze scolastiche quotidiane.
Così, non potendo uscire, ricorrevo alla fantasia: nella mia immaginazione di bambino qualsiasi oggetto mi circondasse riportava al calcio, la mia più grande passione. Il lungo corridoio che conduceva alle stanze sembrava ai miei occhi un bellissimo tappeto verde che rilasciava perfino il profumo dell’erba fresca dell’Olimpico; un semplice cuscino di velluto blu era il più classico dei palloni dell’epoca, quello di cuoio con gli scacchi bianchi e neri, e i montanti della porta della cucina, ovviamente, rappresentavano perfettamente i pali bianchi e la traversa…
Ed io, da solo, correvo da una parte all’altra del “campo”, calciavo e poi paravo, con tanto di auto radiocronaca ad imitare quelle voci che ogni domenica mi tenevano con l’orecchio incollato alla radiolina; una volta ero Giordano, un attimo dopo Garlaschelli, Wilson o addirittura Garella; naturalmente tutti giocatori della Lazio, la mia squadra del cuore.
Verso sera un suono stridulo interruppe le mie fantasie, stoppando improvvisamente quell’interminabile ed estenuante partita. Era il citofono, un nuovo apparecchio da poco installato nel corridoio, accanto alla porta d’ingresso.
Mia madre sollevò la cornetta quasi distrattamente ed aprì pigiando sul tastino bianco senza nemmeno domandare chi fosse; data l’ora non poteva che essere mio padre che rientrava a casa dopo una lunga giornata di lavoro come tante altre…
Ma che qualcosa non quadrasse fu subito palese; qualcosa doveva essere successa e non era certamente una cosa bella; lo capii immediatamente anch’io perché papà, solitamente sorridente anche quando rientrava stanco, era scuro in volto, aveva l’aria preoccupata, quasi commossa.
E infatti, appena mamma gli chiese cosa fosse quell’aria strana, lui, con un filo di voce rotta dall’emozione, ci svelò quanto era accaduto: “hanno sparato a Re Cecconi”, fu la sua risposta raggelante, secca, senza premesse od orpelli…
Luciano Re Cecconi era l’angelo biondo della Lazio, la roccia del centrocampo dello scudetto, il polmone della squadra; era il figlioccio che Tommaso Maestrelli, il mister da poco strappato alla vita da un male vigliacco, aveva fortemente voluto portare con sé a Roma dal Foggia.
Ed ora, chissà, forse lo rivoleva di nuovo accanto. Evidentemente lassù gli mancava un mediano.
La situazione apparve subito in tutta la sua gravità, le speranze erano ridotte e si affievolirono minuto dopo minuto; aspettammo il giornale radio e poi il telegiornale della sera per avere aggiornamenti perché all’epoca non esisteva ancora il televideo, e le poche radio private, anzi libere come si diceva allora, trasmettevano quasi esclusivamente musica; non avevano certo la possibilità, come accade adesso, di sguinzagliare stuoli di giovani giornalisti od aspiranti tali pronti a raccogliere il minimo sussulto del campione di turno.
Sta di fatto che la notizia, ormai nell’aria, non si fece attendere troppo, anche se a noi parve un’eternità: Luciano era morto; stavolta la rincorsa non gli era riuscita, stavolta i muscoli non gli erano bastati, le ginocchia non avevano retto…
Per noi fu come perdere una persona di famiglia, per quanto esagerato possa sembrare a chi non è tifoso o semplicemente non conosce le dinamiche dei veri appassionati di calcio, che vivono sulla propria pelle anche le vicende private dei propri beniamini. Quella tragedia però colpì tutti, indipendentemente dalla propria fede calcistica, dall’essere o meno dei veri tifosi, perché quella morte così atroce e improvvisa mise ancora più in risalto la difficile situazione che la società stava attraversando; erano gli anni di piombo, quelli, anni nei quali anche uno scherzo, ammesso fosse andata davvero come la raccontarono, poteva costarti la vita…
Alcune domeniche dopo mio padre mi riportò allo stadio; per me era la prima gara all’Olimpico dopo la tragedia e l’atmosfera mi apparve irreale, ovattata, permeata da un senso di sconforto e rassegnazione.
Cecco dopo Tommaso; sembrava che lo scudetto, vinto appena tre anni prima, fosse lontano un secolo, inghiottito da un destino deciso ad accanirsi sui colori biancocelesti, quasi a farci scontare quella gioia così grande appena assaporata, come se ne dovessimo pagare il conto, come se fossimo colpevoli di quella nostra felicità.
Dagli spalti tutti i nostri sguardi erano rivolti verso il sottopassaggio posto in zona Curva Sud in attesa che i ventidue protagonisti sbucassero finalmente dagli spogliatoi per andarsi a schierare al centro del campo; sulla tribuna Monte Mario campeggiavano le bandiere di tutte le squadre, in ordine di classifica. Il sole chiuso dietro le nubi rispecchiava l’animo della Lazio pronta a scendere in campo ma ancora con la mestizia nel cuore.
La partita comincia, la Lazio sembra in palla, gioca bene e vince, ma soprattutto, incredibilmente, Re Cecconi sembra di nuovo al suo posto: una zazzera bionda, infatti, scorrazza per il rettangolo verde portandosi a spasso la “sua” gloriosa maglia numero otto!
In realtà è “soltanto” Andrea Agostinelli, giovane della Primavera che ha già sostituito Luciano durante il suo infortunio, ma per me e per tutti i laziali, quel giorno, rappresenta qualcosa di più; è il segno della rinascita, di una possibile rivalsa sul fato cinico e baro; è la speranza che in fondo, lassù, qualcuno ancora ci ami…”