Si dice che il Calcio sia una metafora della vita. Ed anche che il Calcio, o meglio, la passione per la propria squadra di calcio, rappresenti – tra le attività umane non essenziali alla vita di un individuo – quella più ricorrente, aggregante e pulsante. Le due espressioni non intendono dimostrare le stesse cose. Tuttavia, mostrano due fattori comuni: in primis, contengono entrambe la parola Vita. E tutte e due, attribuiscono al Calcio una valenza non paragonabile a qualsiasi altra attività svolta dagli uomini.
Il Calcio è una gigantesca fabbrica di passioni. È una nuova epica moderna, che ricalca in tutto e per tutto lo schema classico. I calciatori sono “anche” undici atleti che si contendono un pallone. Nella nostra testa, sono i nuovi Agamennone e Menelao. Sono Achille ed Aiace, gli Eroi–Protagonisti, e rappresentano i valori dell’intera comunità che difendono fino alla morte. Seguendo quest’azione narrativa, i Calciatori-Eroi combattono ogni domenica in uno scontro tra due popoli contrapposti, portatori di diversi valori, credenze e modi di vivere. In ciascuna Guerra–Partita, sopravvive la Comunità-Tifoseria che vince.
Da bambino ero abbastanza alto ma decisamente mingherlino. Temevo i bulletti del quartiere, mi spostavo lungo l’asse scuola–parrocchia, da cui deviavo raramente, solo per andare a casa di qualche amichetto per fare i compiti con lui. La mia famiglia, soprattutto mio padre, detestava il Calcio. Faceva del suo meglio per tenermi lontano da chiunque me ne avrebbe potuto parlare. La “svolta” arrivò nella primavera del 1973. Frequentavo la quarta elementare: in classe, tutti i bambini non parlavano altro che di una “piccola” squadra di Calcio. Una squadra emergente, che si chiamava Lazio. Siccome non avevo mai assistito ad una partita, nemmeno alla televisione, non sapevo cosa fosse la Lazio, né dove giocasse e non conoscevo neppure il colore della sua maglia. Durante la ricreazione, mentre i compagni snocciolavano nomi e risultati, memorizzai quello più ricorrente. Chinaglia, Giorgio Chinaglia. Mi domandai che aspetto avesse. Per non sentirmi un emarginato, iniziai a millantare di aver assistito a decine di partite, spesso in compagnia di mio padre, essendo anch’egli, naturalmente, un grande appassionato. La bugia durò poco, venni smascherato in cinque minuti perché non conoscevo le regole. Rosso dalla vergogna, mentre rientravo in classe, una bambina mi mise in mano una figurina. La figurina di Giorgio Chinaglia.
La maestra chiamò un bambino alla lavagna. Ero seduto nella fila di sinistra, sotto la finestra. Da quella postazione, avevo tutte le condizioni necessarie per potermi fare i fatti miei nel bel mezzo della correzione degli esercizi di aritmetica. Osservai la figurina che avevo sistemato sulla sedia, incastrata tra le gambe. La faccia di Chinaglia era contenuta in un piccolo riquadro a sinistra. Lui sembrava guardare altrove, con l’espressione un po’ seccata di chi è stato fotografato controvoglia. Più centrata, la foto grande. La osservai attentamente: non sarebbe stato facile diventare un esperto di calcio. “Come avrei fatto” – mi chiesi – “a riconoscere tutte le squadre, se una stessa squadra può avere due maglie diverse?” Nella foto più piccola, Chinaglia aveva una maglia azzurra mentre in quella grande ne indossava una bianca. Vicino a lui, un avversario con la faccia da vecchio, in maglia viola. Mi concentrai su Chinaglia: pensai fosse grosso abbastanza per tirare giù a suon di pugni qualsiasi bulletto, anche un’intera banda di bulletti. Era come il mio eroe del cinema, Bud Spencer, per il quale condividevo la passione – questa volta reale – con mio padre, che mi aveva portato a vedere Trinità.
Con Chinaglia fu amore a prima vista. Long John divenne il mio nuovo eroe. Lui mi avrebbe difeso, lui mi avrebbe fatto sentire importante, sarei diventato grande come lui. Crescendo, sarei diventato anch’io un vero tifoso, uno di quelli che, al sabato sera, al bar, calpestando mucchi di segatura sparsa – ché fuori piove – mentre attendono di giocare la schedina al Totocalcio, si accendono distrattamente una enigmatica sigaretta.
Avrei dovuto fare tutto da solo: mentre gli altri avevano un genitore o uno zio di riserva ad accompagnarli allo stadio, io non avevo nessuno. Per fortuna, il portiere del mio palazzo era un laziale sfegatato. I miei mi affidarono al signor Luigi, e io potei iniziare ad andare allo stadio con una certa regolarità. Era il gennaio del 1974. Dopo cinque mesi, arrivò lo Scudetto. Pensai di essermi scelto una squadra praticamente invincibile, dal momento che, nel rapido volgere di 14 mesi, avevo ottenuto un terzo e un primo posto. Pensai che avremmo vinto lo scudetto ogni tre/quattro anni e mi sentii invincibile proprio come Chinaglia. Nel passaggio alle scuole Medie, la Lazio e Giorgione cominciarono a perdere colpi. Nel 1975, la Roma ci superò in classifica: avevo perso la mia prima guerra. L’anno successivo fu la prova del fuoco, l’anno in cui divenni un “vero” tifoso della Lazio, uno di quelli irriducibili. La squadra era sull’orlo del baratro, un evento che non avevo minimamente preventivato. Giorgio Chinaglia decise di lasciarci. Improvvisamente – “pe ‘na questione de quatrini”, mi spiegò con fare cinico il fornaio sotto casa, mentre mi tendeva la mano per darmi il resto per due etti di pizza bianca. Nella mia testa da dodicenne, fu come se Giorgio avesse abbandonato soltanto me.Avevo perso il mio eroe. Con l’aiuto di un coltellino, strappai dal vetro l’adesivo della sua boutique, che avevo orgogliosamente attaccato alla finestra della mia camera: c’era scritto Long John moda uomo. Mi sentii tradito e di colpo, Long John non mi piaceva più.
Due giorni dopo mi venne il morbillo. Feci in tempo a farmelo passare per poter tornare allo stadio per Lazio Milan. Eravamo vicini alla Serie B e io ero sull’orlo della disperazione: come avrei potuto presentarmi alla classe e affrontare virilmente l’onta della retrocessione?
Quel giorno conobbi da vicino quello che sarebbe diventato il mio nuovo eroe, Bruno Giordano. Più basso di me – nel frattempo ero cresciuto parecchio – lo sentii più raggiungibile, meno extraterrestre del mio primo eroe. Nelle movenze, era decisamente più elegante di Chinaglia. Più tecnico e veloce, era leggero come una farfalla e mortifero quanto una sberla di Terence Hill. Quando Badiani segnò il gol del 2 a 2 al Como, ero da solo in camera mia e piansi dalla gioia; a sera, mia madre ci portò a mangiare un gelato. Anche mia sorella più piccola era con noi. Mi chiese perché fossi così allegro. Annusai l’aria fresca di maggio, che già profumava d’estate. Mi sentii un tifoso molto esperto: ero arrivato al mio quarto campionato, avevo qualcosa da raccontare e una squadra da tifare, e ancora in Serie A. Ed in più, avevo un nuovo eroe in cui identificarmi, un calciatore forte come Giordano. “Con uno come lui” – pensai“vinceremo presto un altro Scudetto”.
Mi resi conto che avevo iniziato a riferirmi alla Lazio pensando al plurale. Bruno Giordano non era più soltanto il “mio”eroe. Mi accorsi di condividere questa passione con tanti altri ragazzini e perfino con tantissimi adulti. Iniziai a percepire il senso di comunità, di identità e di famiglia, una solidarietà che deriva dal condividere la stessa passione per una squadra di calcio.
Bruno Giordano sarebbe rimasto con noi per altri otto anni. Sarebbe più corretto dire, per altri sei. Visto quel che sarebbe accaduto. A differenza di Chinaglia, del quale subii l’addio senza nemmeno rendermene conto, per Bruno fu molto diverso. Ero presente a quel Lazio Juventus del 1985, a quel 3 a 3 in cui giocò benissimo, sfoderando giocate all’altezza della sua fama, un livello che non avremmo rivisto che dopo un buio decennio. Ero in Tribuna Tevere: durante il secondo tempo, scoppiò una guerra civile tra tifosi, tra difensivisti e colpevolisti. Entrambe le fazioni erano innamorate dello stesso eroe, ma, se la prima gli aveva rimesso tutti i debiti, la seconda gli stava presentando il conto. Vidi alcuni fratelli laziali darsele di santa ragione. Un modo assai triste per dire addio ad uno dei più grandi miti delle nostre domeniche pomeriggio.
Bruno sarebbe andato al Napoli. Lo avremmo visto vincere, flirtare con Maradona e Careca, dare vita alla Ma.Gi.Ca., una società privatissima ad uso esclusivo dei soli tifosi del Napoli. A noi, fra le dita, non erano rimasti che i brandelli della Lazio più piccola di sempre.
Scese la notte. Era una Lazio senza più eroi. Privati di ogni simbolo e abbandonati nuovamente da Chinaglia – stavolta in versione Presidente – ci infilammo in un tunnel di cui non avremmo visto la fine che nel decennio successivo.
Grazie a Dio, terminò il decennio maledetto dei nostri anni Ottanta. Ritornammo a riveder le stelle nell’estate 1992. Era arrivato un angelo vendicatore. Aveva i capelli biondi, una sorta di caschetto stile hollywoodiano, l’aria sbarazzina di chi è consapevole di riuscire a fare le cose difficili dando l’impressione di impegnarsi non più di tanto. Arrivò uno che segnava da tutte le posizioni, di destro, di sinistro, insomma, segnava sempre lui, si chiamava Beppe Signori.
Ad un giocatore così forte non c’eravamo più abituati. Per i nati nel 1980 non fu difficile innamorarsi di un calciatore così. E anche noi, che avevamo avuto Chinaglia e Giordano, dopo quasi un intero decennio senza un calciatore simbolo, avevamo nuovamente un eroe, un campione da poter ostentare.
Beppe Signori divenne Beppe-gol. La sua presenza ci riportò tra i grandi della Serie A. D’un tratto, ritornammo ad avere voce in capitolo anche nella Nazionale. Perché era lui il centravanti scelto per USA ‘94, esattamente come, vent’anni prima, lo era stato Long John per Monaco ’74.
I mondiali andarono come andarono, male, nonostante la finale conquistata. Perché Arrigo Sacchi voltò le spalle a Beppe nostro proprio sul più bello, non concedendogli neanche un minuto di gioco nella finale col Brasile, riconfermando l’antica regola che vuole la Lazio un corpo estraneo rispetto alla Nazionale, due fluidi impossibili da amalgamare, proprio come l’acqua e l’olio.
La Lazio cragnottiana cresceva a dismisura. Arrivavano campioni uno dopo l’altro. Ma il ciuffo biondo di Signori continuava ad essere il nostro marchio di fabbrica.
Dopo il campionato della Lazio zemaniana del 1994-95, una bella mattina Sergio Cragnotti si svegliò con in testa l’idea meravigliosa di vendere il nostro eroe al Parma. Un presente al suo amico-partner d’affari Calisto Tanzi. Immediatamente scattò una contestazione senza precedenti, teletrasmessa perfino dal primo canale Rai. A sera, al Tg1, uno scocciatissimo Sergio Cragnotti avrebbe annunciato che, suo malgrado, Giuseppe Signori sarebbe stato il centravanti della Lazio anche nella stagione successiva.
La Lazio iniziò a crescere e a diventare sempre più invidiata. Ad ogni campagna acquisti, Cragnotti aggiungeva un nuovo mattoncino. Pezzo dopo pezzo, ne uscì fuori una Lazio stellare. Boksic, Marchegiani, Winter, Di Matteo, Mancini, Venturin, Casiraghi, Jugovic, Fuser. E Nedved, uno dei più forti centrocampisti d’Europa. A quella multinazionale fatta di AllStars, Signori aveva fatto da apripista. Nonostante qualche défaillance dal dischetto, soprattutto in campo europeo, continuava ad essere il nostro eroe. Perché, tra le tante doti riconoscibili al tifoso laziale, c’è quello della riconoscenza. Signori era quello che aveva iniziato a riscrivere la nostra storia. Insieme a Gascoigne, più di Gascoigne, era stato capace di far riparlare di Lazio anche negli ambienti extra-calcio. Rimanemmo increduli nel vederlo relegato in panchina. Ma cosa avrebbe dovuto fare Sven Goran Eriksson? Far rispettare a tutti il turn-over tranne che a lui?
Beppe ci salutò un giovedì pomeriggio. Un’altra fuga, simile a quella che fece Long John, ma solo per quanto riguarda la scelta del mezzo di trasporto.
Però, se Chinaglia se ne scappò negli U.S.A. imbarcandosi con moglie e figli a bordo di un Falcon da sei posti, Signori dovette salutarci in solitudine, seguito solo da pochi giornalisti e da qualche facchino con la tuta degli aeroporti di Roma.
Quella volta fummo distratti, forse peccammo di indifferenza. Ci sentivamo talmente invincibili da poter fare a meno di un eroe, uno di quelli più grandi e corretti, un bomber che ci aveva fatto impazzire per 127 volte.
Di fatto, ci stavamo apprestando a vivere due dei tre anni più intensi di tutta la nostra storia. Tra tutti gli acquisti milionari effettuati da Cragnotti, uno era stato un regalo del destino: Alessandro Nesta era il predestinato, l’eroe ragazzino, il ragazzetto dall’aspetto educato che lascia che le persone escano dal vagone, prima di salire sulla metro che dalla fermata Subaugusta lo porterà a piazza di Spagna.
Alessandro Nesta divenne l’eroe dei ragazzini. Io lo osservavo un po’ dalla lontana, nel frattempo ero diventato padre anch’io, e mi rallegravo nel constatare che le nuove generazioni, differentemente da quelle più vicine a me, si innamorassero di uno che i gol, più che farne, li doveva evitare. Nesta di gol ne ha segnati davvero pochissimi ma era scritto nelle stelle che proprio lui, realizzasse quello della vittoria sul Milan, che valse la seconda Coppa Italia, il primo vero trofeo conquistato da chi era troppo piccolo, o non era affatto nato, per godere delle gesta di Chinaglia &. Soci.
Era proprio un regalo del destino, il nostro nuovo eroe, il giocatore simbolo che accomunava tutte le generazioni di laziali: Alessandro Nesta.
Siamo arrivati alla fine del secolo. La Lazio è diventata la prima squadra della Capitale, non solo più per una questione meramente anagrafica.
Nonostante fosse nata ben 27 anni prima, a Roma c’era solo la Roma. È con Giorgio Chinaglia che si iniziò a mettere in discussione le gerarchie.
Ma se nel 1974 l’exploit della Lazio targata Lenzini era stato un fenomeno soltanto cittadino, la Lazio cragnottiana stava alterando equilibri dati per acquisiti, anche e soprattutto a livello nazionale.
In breve: Sergio Cragnotti fu messo nelle condizioni di dover cedere, in tutta fretta, alcuni dei suoi pezzi migliori. Tra questi, anche Alessandro Nesta.
Non ci fu tempo per salutarlo. La sera stessa della chiusura del mercato era già a Milano, lo vedemmo apparire sul balcone della sede del Milan, a via Turati. Nel nostro immaginario, il suo addio costituì la definitiva perdita dell’innocenza, la fine del mito, la sconfitta del tifoso laziale. Ci colse un senso di impotenza e di frustrazione.
Dopo Alessandro Nesta – giurai a me stesso – non mi sarei più innamorato di nessun altro calciatore. Avrei sì seguito la Lazio, certamente, ma avrei dato importanza solo alla maglia.
Seguirono anni altalenati, un eroe di ritorno ci fece esultare come bambini, facendoci stravincere il derby proprio nella notte in cui arrivava la Befana. Quella notte le generazioni tornarono ad unirsi di nuovo. C’era chi lo aveva conosciuto giovinetto, con il dito sotto la Sud, come suo “nonno” Giorgio Chinaglia. Chi lo stava conoscendo come uomo e calciatore maturo, er vecchio, come lo sbeffeggiavano nell’altra curva. Nella realtà dei fatti, Paolo Di Canio è stato – finora – l’unico eroe ad essere ritornato facendoci commuovere e gioire una seconda volta.
Che strane Lazio in questo inizio millennio. Abbiamo vinto comunque, e tanto, a livello nazionale, e abbiamo ammirato parecchi giocatori. Sono arrivati tanti buoni calciatori, alcuni ottimi. È addirittura arrivato un fuoriclasse, uno come Miro Klose. Ma uno come lui non abbiamo mai temuto che qualcuno potesse portarcelo via. Eravamo consapevoli della sua maturità ma non guardavamo all’età. Sapevamo che avrebbe finito con noi, e così fu.
Andare allo stadio era spesso piacevole, arrivarono altri giocatori e arrivò anche Senad Lulic. Una Lazio fatta di antieroi divenne l’eroica Lazio del nostro 26 maggio.
Mancava, però, quel calciatore che potesse fungere da catalizzatore di sentimenti, che conferisse al popolo dei tifosi il senso di appartenenza, di identificazione, quell’indissolubile legame per cui, l’eroe e club che rappresenta, diventano un sinonimo l’uno dell’altro.
Il 27 luglio 2016, un’ultima ora dell’Ansa, annunciò che il Siviglia aveva ceduto Ciro Immobile a titolo definitivo alla Lazio.
Il tifoso laziale non si scompose più di tanto. Immobile veniva da due campionati molto difficili ed era finito spesso in panchina, sia con il Borussia Dortmund che con il Siviglia. Tuttavia, il fatto di averlo acquistato per una somma decisamente bassa, lo fece ritenere un acquisto azzeccato.
Il primo schiocco arrivò una sera d’agosto. È il 21 agosto 2016, la Lazio è di scena a Bergamo. Immobile sblocca il risultato al 15’. Nonostante una piccola sofferenza nei minuti finali, la partita terminerà 4 a 3 per noi.
Da quella notte, Immobile non si fermerà più. A mano a mano che segna, tra lui e noi inizia a nascere un rapporto speciale. Immobile diventa innanzi tutto Ciro, poi Ciruzzo, poi ‘O sole mio. Una serie di vezzeggiativi che danno la misura dell’affetto che il tifoso nutre per questo calciatore.
Era dai tempi di Alessandro Nesta che alla Lazio mancava il grande eroe. La maglietta più venduta è quella di Immobile. I bambini hanno finalmente un eroe, un campione in cui immedesimarsi, dopo le epopee di Chinaglia, Giordano, Signori e Nesta.
E anche noi adulti, tifosi ormai anziani con decenni di Lazio alle spalle, realizziamo che un campione dalle qualità umane così amabili, forse non lo abbiamo mai visto. Ciro è l’eroe della porta accanto, il ragazzo semplice venuto dal sud, dall’atteggiamento costantemente umile, dal basso profilo, aperto all’accoglienza e disponibile al confronto. Oltre a segnare gol a raffica, ha quel modo di guardare la telecamera, con gli occhi sgranati pronti ad aprirsi in un sorriso – che buca lo schermo arrivando dritto al cuore della gente.
Per la stampa cittadina e perfino per quella nazionale, questo fatto costituisce un’anomalia. Si è da poco conclusa l’era tottiana e dopo tanto tempo, la Roma è per la prima volta priva di un vero uomo simbolo. La Società Sportiva Lazio ha invece messo su una squadra niente male. Dalla rosa forse un po’ corta, le due Lazio del biennio 2018-2020 risultano estremamente competitive. Coppa Italia, Supercoppa, super-rimonta nel campionato 2019-20 e primo posto in classifica al temine di Lazio Bologna. Almeno fino all’avvento del Coronavirus, abbiamo assistito alle prestazioni di una delle più belle Lazio di sempre. Di questa Lazio, Ciro Immobile è il simbolo, è l’eroe di tutti i bambini che da grandi diventeranno grandi tifosi della Lazio.
Non ho dormito bene la notte tra venerdì e sabato. Ho visto un video che mostrava le lacrime di un tifoso che salutava Ciro a Fiumicino. Dopo qualche minuto, non so come, si è materializzata sul mio cellulare l’immagine di Immobile appena sbarcato ad Istambul, con già addosso una sciarpa del Besiktas. Mi sono addormentato con un leggero magone e ho dormito male. Ma non perché le due parole Besik – tas, in turco significhino “culla di pietra”. Avevo sempre pensato, sbagliando, che innamorarsi di un campione fosse una cosa da adolescenti, da studenti delle scuole, e che un adulto, questo genere di “lussi”, non potesse più concederseli.
Perché abbiamo tutti altri problemi per la testa, i soldi, il lavoro, la salute, i figli, i nipoti.
Eppure, la passione per la nostra squadra ci prende e ci porta via, ogni volta, allontanando da noi tutte le angosce (o quasi) della vita.
Io, in quanto tifoso della Lazio, penso di essermi attaccato a questa squadra in modo indissolubile e provo ogni volta un senso di conforto, nel sapere che tante persone che nemmeno conosco, provano nello stesso istante le stesse gioie e gli stessi dolori che sto vivendo in quel momento.
Quando iniziai a fare il tifoso “di professione”, gli anziani in curva mi raccontarono del passaggio di Arne Selmosson, dalla Lazio alla Roma. Selmosson era un centravanti molto abile, lontano da qualsiasi stereotipo legato al mondo del pallone. Algido, magnetico, elegante, gli era stato affibbiato il soprannome più romantico della storia del calcio, Raggio di Luna. Probabilmente era un altro calcio, un altro tempo, ma come si saranno sentiti i tifosi della Lazio nel momento dello scippo? Perché nessuno intervenne? Come hanno lasciato che una cosa tanto ignobile divenisse realtà? Se si potesse parlare di blasfemia applicata al calcio, questo sarebbe il caso maestro.
A volte, penso che intorno a noi aleggi una specie di maledizione. Non riusciamo mai a sentirci tranquilli per più di una stagione di seguito. Che la felicità, a noi Laziali, porti sempre con sé un’imperfezione. Per ricordarci chi siamo.
Sono passati dieci giorni, Ciro è ad Istambul e tutto mi appare così sfocato. So che stanno arrivando nuovi giocatori, ne parlano bene, e questo mi basta. Non sono un tecnico, di moduli e di strategie non ci capisco, e nemmeno mi importa. Io sono cintura nera di sopravvivenza all’abbandono del mio eroe. Io sono un tifoso della Lazio e rinnoverò anche quest’anno il mio abbonamento. Fino alla fine.
Ugo Pericoli